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“Chiamami col tuo nome”, Luca Guadagnino

Un inno alla bellezza.

Guadagnino contempla e racconta una bellezza idealizzata, filtrata attraverso i caldi pomeriggi estivi della campagna cremasca, le dolci note di un pianoforte, la perfezione delle statue elleniche e la narrazione di un rapporto che trascende la rappresentazione ideale stessa, dell’amore.

Estate 1983, tra le province di Crema e Brescia, Elio (Timothèe Chalamet), un abbiente diciassettenne italo-americano vive con i genitori nell’amena villa del XVII secolo. La sua esistenza è sconvolta dall’arrivo e dal rapporto con Oliver (Armie Hammer), studente americano di ventiquattro anni, che sta lavorando ad un dottorato con il padre docente di Elio.

La sceneggiatura di James Ivory è sublime. Si fonda su di un verbale che nasconde, che rimanda e che infine svela la vera natura dell’essere umano.

La parola apre uno spiraglio; la sua comprensione conduce spesso ad una rivelazione identitaria, un’intima epifania. Ma l’attrazione è veicolata attraverso il non verbale; sotto la superficie risiede il calderone pulsionale delle passioni umane.

“Soffochiamo così tanto di noi per guarire più in fretta, così tanto che a trent’anni anni siamo già prosciugati e ogni volta che ricominciamo una nuova storia con qualcuno diamo sempre di meno, ma renderti insensibile così da non provare nulla, è uno sbaglio.”

Ma alla fine che cosa rimane dopo l’amore? La cessione della propria identità, l’accettazione di quella dell’altro, ma più in generale il prezioso dono della condivisione, l’essersi influenzati reciprocamente fino a cambiare la propria, intima, individualità. Il desiderio è sempre desiderio dell’altro; e l’amore non è possesso di qualcosa o qualcuno, anzi è espropriazione di sé, diceva Lacan.

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